Le fotografie

La cattura di una fotografia

Nel selezionare cosa sta dentro e cosa sta fuori dall’inquadratura, si compie un gesto che nascendo dal cortocircuito fra la realtà osservata e il mio personale vissuto, fa assumere alla fotografia lo stesso valore del lettino dello psicanalista.

Linee, sguardi, contrasti o prospettive diventano così segni e metafore il cui significato va ben oltre il dato sensibile; così vissuta, la foto che nasce nell’istante del click parla molto più del fotografo che dell’oggetto fotografato.

Questa interpretazione della fotografia mi ha portato a preferire il linguaggio del bianco-nero che contiene un’essenzialità comunicativa e impone una rigorosa educazione dello sguardo, e l’approccio analogico che, come la vita, contiene strutturalmente l’imperfezione e quella dose d’imprevisto che non lascia mai del tutto tranquillo.

La tecnica con cui fotografo

L’approccio

Credo nel grande mantra dell’essenzialità e, al di la del buon corredo di macchine, ho per scelta pochi obiettivi per potermi muovere, soprattutto nella street, il più possibile anonimamente. Mi danno fastidio le borse, i teleobiettivi esibiti come i SUV la domenica, le attrezzature ingombranti e tutto ciò che è vistoso in genere.

Lo scatto

Fare fotografie viene spesso immaginato come un gesto semplice, ripetitivo, in fin dei conti un pò scontato e casuale. 

In realtà è un gesto largamente influenzato da almeno tre fattori; il fotografo, il soggetto e lo strumento

La fotografia di strada impone rapidità, innanzi tutto mentale, nel cogliere le situazioni, percepire “quando”, “dove” e “come” accadrà qualcosa di significativo in un contesto, quello urbano, caratterizzato da un incessante divenire. L’attenzione è tutta nel cogliere quell’attimo preciso in cui il caos prende una forma definita – cioè un significato – per perderlo nell’attimo seguente; il prima e il dopo sono esclusi. L’attimo si eternizza.

Quando si mette “…sulla stessa linea di mira il cuore la mente e l’occhio” (Henri Cartier-Bresson), la macchina diventa così un prolungamento di sé.

La fotografia di paesaggio – soprattutto quella del “grande formato” – è una esperienza pressoché opposta. La lentezza domina. Si parte prima, molto prima. Immaginare il soggetto e pensare alle condizioni ideali di luce. Scegliere la pellicola. Raggiungere il posto. Estrarre la macchina, aprire il treppiede, metterlo in bolla, sistemare la macchina fotografica e settarla “a zero”. Misurare la luce riflessa, determinare la coppia tempi/diaframmi, correggere i valori per effetto di eventuali filtri o di contrasti non ottimali. Annotare il tutto per la fase di stampa. Inserire lo chassis, estrarre il volè, controllare il tutto. Finalmente tutto è pronto. Click… mezz’ora almeno, di più se al momento dello scatto le condizioni non sono più quelle ideali… E’ una fotografia meditativa, rallentata, una fotografia del “momento anticipato” (Richard Misrach) cioè quell’attimo in cui si decide ove posare il cavalletto e dove orientare l’obbiettivo; il resto è attesa. “E’ il tempo, non lo spazio, a trovarsi al centro della rappresentazione” (Francesco Zanot).