Dicono di me

La fotografia è tanto di chi la scatta quanto di chi, osservandola, ne subisce un contraccolpo emotivo. Nelle parole che seguono, alcuni fissano l’attenzione su singole immagini, altri su una intera serie. C’è chi conosce il linguaggio fotografico e c’è chi ne è a digiuno, a testimonianza che la fotografia, nella sua irriducibile immanenza alla realtà, è un linguaggio capace di incontrare ciascuno nella propria storia e nella propria specificità.

Uno sguardo empatico

Le fotografie di Alessandro Nicoloso rivelano uno sguardo empatico che entra in sintonia emotiva con la realtà sull’onda di un interesse umano, di una curiosità talvolta appassionata che sembra condividere la stessa condizione, gli stessi limiti, le stesse potenzialità di ciò e di chi gli sta di fronte. Un guardare aperto al riconoscimento, attento cioè a cogliere il momento di un disvelamento di un sovrapporsi contingente e apparentemente casuale di elementi che apre ad un sovrappiù di senso. Segni che si combinano per un istante a produrre l’ipotesi di un significato. La fotografia funziona allora come un cortocircuito e il senso – che nella realtà è sempre “più in là” – diviene improvvisamente manifesto e visibile.

Piermario Aroldi
Università Cattolica


Alcuni appunti sulla fotografia
Alcuni appunti sulla fotografia di Alessandro Nicoloso

Quando l’immagine fotografica è di per sé opera. La visione si incarna e il battito del mondo vi abita, nonostante la bidimensionalità.
Perché fotografare può avvicinarsi all’incarnazione? Non tanto perché scorre il sangue in quelle figure che appaiono e scompaiono, ma perché quelle figure vivono una relazione stretta con l’infinito e il definito.
La fotografia incarnata non è la ricerca del momento particolare, curioso, oppure la denuncia di uno stato o l’affermazione di un’idea, forse è semplicemente una forma di carità, quella particolare forma di carità che è l’attenzione, l’attenzione verso quel qualcosa che chiama o che richiama, quel qualcosa che nel nostro sguardo racchiude il senso del tutto. La memoria. Perché quello e non altro… La memoria. La memoria come articolazione di ricordo e stupore dell’attimo, o forse degli attimi, sequela di visioni che chiedono carne. Mi ha sempre colpito, positivamente o negativamente non importa, sicuramente toccato, quella moda di fine Ottocento che aveva reso consuetudine bizzarra il ritratto fotografico dei morti sorretti in seduta nel gruppo dei propri cari, come tentativo ultimo di tenerli in vita su quella bidimensionalità luttuosa e terribile, quasi nel voler cercare e ricercare vita, ancora vita, nella domanda feroce di un aldilà, di un esserci ancora, nonostante tutto. Oppure quell’episodio contenuto nel film Sacrificio di Andrej Tarkovskij, dove il postino, collezionista di casi rari e assurdi, racconta di quella foto della madre col figlio morto in guerra. Nel momento dello scatto la madre era sola, in un dopoguerra di dolore e consapevolezza, ma dopo lo sviluppo del negativo e la stampa dell’immagine la madre si ritrova accanto il figlio, presente nella posa fotografica ma ovviamente assente nel momento dello scatto. Un mistero. Un desiderio. Una incarnazione.
Con le sue fotografie Alessandro Nicoloso prova a ricostruire con la materia della realtà un mondo dove la traccia dell’uomo risiede, un paesaggio antropomorfo, un paesaggio umano, un paesaggio abitato dalla traccia del suo lavoro, della musica che si diffonde negli antri del vivere, della preghiera che è domanda.
In Miserere ci ritroviamo al cospetto di «attimi spalancati sul mistero», immagini dove traspare una domanda insondabile, o forse un esserci dove l’essere si scopre più se stesso, dove l’occhio e il cuore, o l’occhio del cuore, sa dove guardare, o almeno dove provare a guardare, in attesa di una risposta o di un segnale. Dove?
In Musica di strada, là dove musica è strada e strada è musica, ci sorprende un’esperienza di street photography sostenuta da un comune denominatore: la musica, essenziale, fondante, perché spesso la “street” ha bisogno di un pilastro di senso su cui poggiarsi, su cui poggiare lo sguardo per poi partire, spaziare, fermarsi e soffermarsi ancora. È come ascoltare le note della strada, i suoni, le eco che si diffondono dai margini dell’immagine, allargandone i confini e forse sprofondando in un’altra dimensione, oltre la bidimensionalità, accogliendo le contraddizioni con questo suo implacabile bianco e nero. Come nella prima foto della serie, dove l’essere assorto, quasi mistico, del suonatore di tromba si scontra con l’estrema drammaticità del simbolo tracciato sul muro accanto a lui, simbolo di distruzione e rifiuto dell’umano; una sorta di inno alla sacralità del vivere che si diffonde tra le volte di una cattedrale-vicolo, spezzando gli uncini famelici della disumanità diabolica. O lo sguardo del ragazzo con la fisarmonica e il cane sulla scalinata. Uno sguardo trasognante che fissa oltre… quasi come l’ascensorista di Robert Frank su cui Jack Kerouac scriveva: «E dico: quella ragazzina ascensorista tutta sola che guarda in su e sospira in un ascensore pieno di demoni confusi, come si chiama? Dove abita?». O il clarinetto fra presenze fantasmatiche, riflesse come in un gioco di specchi sui vetri della metro: come una moltiplicazione dell’essere nell’incertezza dell’esserci.
Collegata a questa sezione, quella intitolata da Alessandro Nicoloso semplicemente Jazz, dove i contrasti, i neri, l’oscurità degli interni e gli inevitabili mossi generano un magma sonoro ancora più rappreso rispetto alla sezione sulla musica di strada, dove si respira free, free jazz, free photography, libertà compositiva, movimento, improvvisazione, immagine senza calcolo, dove la costruzione spaziale ha lasciato il campo a una melodia sincopata.
In Con le mani e col cuore – le mani e il nostro essere, le mani e il nostro creare – è come se l’obiettivo si avvicinasse, attraverso la nostra creaturalità, all’essere creatori, mani che plasmano, mani che consapevolmente formano. Creatività, creazione, creaturalità.
Punto di fuga: «Paesaggi, linee convergenti, allusive; prospettive che indicano un oltre, che invitano a guardare in fondo e più in là ancora»; oltre l’oscurità e la solitudine di un tavolino nel susseguirsi dei portici; oltre il muro, oltre la siepe leopardiana che il «guardo esclude», per percepire quel qualcosa che sta più in là, che sta oltre, che sta altrove; oltre la scala… la luna; oltre la battigia, oltre l’abbraccio… il mare; oltre la vetrata traspare…; oltre la scalinata, più in su… cosa?
Le imagini di Così è se vi pare sembra vogliano immedesimarsi in un atto della visione al cospetto dell’opera d’arte, come se dovessero accompagnare il visitatore e il suo sguardo nella costruzione fotografica di una realtà composita, fatta di atto visivo e presenza artistica. Come se fosse la ricostruzione scenica di un’abitabilità dell’arte plastica, una sorta di coabitazione, di coesistenza di vita reale e vita ricreata dall’arte, fino alla sublimazione della vita stessa. Forse più che «così è se vi pare», più che «ciò che appare ma non è», mi è sembrato il ribadire della presenza della vita in quello che vita non è, o, meglio, in quello che vita è come sua rappresentazione, come sua immagine, come suo palpito; come l’inesorabile crescere di quelle erbe che tenacemente affiorano nel giardino. Sì, una vita tenace nella vita riplasmata, come nella fotografia, come nell’immagine fotografica, come nella pura immagine, fotografica e cinematografica.

Andrea Ulivi
editore, fotografo, docente


Vedere, ascoltare, ricordare, emozionarsi

La musica – tutta – impegna i sensi. E si imprime in quella modalità conoscitiva e creatrice che è la memoria emotiva. Così quando ascoltiamo un brano, riviviamo un mondo, quello che si è plasmato dentro di noi quando per la prima volta quelle note hanno toccato il nostro cuore. 

Ed ecco che a un certo punto la gente che suona uno strumento o che canta una canzone ha bisogno di immergersi nella vita suonando e improvvisando per strada, sul marciapiede, ad una fermata della metro o sotto un portico, davanti ad un negozio o vicino ad un semaforo. … A noi che ci passiamo davanti distratti o trafelati come “in stracarichi tranvai”, tutto questo si presenta come un’epifania oppure come un fastidio….Roba veloce, ma autentica. Le immagini di Alessandro Nicoloso colgono tutto questo bailamme. L’istante in cui qualcuno si trova sulla tua strada e introduce un istante inatteso di arte. A volte è musica sguaiata, altre volte è grande arte. Accade in penombra, oppure a luce piena, oppure ancora nella stanchezza della giornata, su strade distratte. E l’occhio fotografico ferma il tempo, definisce gli istanti, aiuta a ricordare le melodie e le memorie emotive che ne sono suscitate. La musica di strada è un segnale. Stradale, astrale, esistenziale. E le immagini che la raccontano sono una narrazione emozionale. Attraverso di esse vediamo, ascoltiamo e ritroviamo noi stessi.

Walter Gatti
giornalismo & comunicazione


Fotografare il desiderio

Cosa spinge Alessandro a fermare proprio quell’attimo? Una frazione di secondo, e tutto sarebbe sfumato. Non c’è tempo per il pensiero logico: è la passione, l’urgenza, il desiderio a guidare lo scatto. Solo l’inconscio è capace di questo: come se in quel lampo, riconoscesse qualcosa di già scritto, un battito di verità.
La fotografia in bianco e nero di Alessandro è più di un’immagine: è un’eco silenziosa di ciò che ci abita dentro. Un volto, un’ombra, una mano tesa in una strada deserta diventano specchi di nostalgia, bisogno, domanda. Io vi riconosco l’umiltà di chi cerca, il grido sommesso di chi attende, la preghiera di chi sa di non bastare a sé stesso. In ogni scatto unico e autentico di questo fotografo, forse, c’è proprio questo: il riflesso di un desiderio che ancora ci interroga.

Carlo Arrigone
psicanalista

Le interviste di Carlo Arrigone ad Alessandro Nicoloso